mc.jpg < >

17/09/2014

IL FUTURO

UN FUTURO SEGNATO
Il futuro macroeconomico è piuttosto semplice da leggere.
Basta analizzarlo sotto il profilo storico economico.
Siamo all'interno di un contesto nel quale l'occidente paga una differenza di competitività con i paesi emergenti (o emersi da poco) rilevante, che sta già portando e porterà a un inevitabile trasferimento di ricchezza e di potere d'acquisto verso oriente.
Turchia, Bulgaria, Romania, Polonia tra gli stati europei e Cina, sud est asiatico e India per il resto.
Questo processo è irreversibile.
Di fatto è iniziato nei primi anni 2000 con l'ìngresso della Cina nel WTO. L'occidente ne ha risentito poco all'inizio perchè il ribasso dei tassi e il contestuale boom immobiliare in Europa e in parte anche in America hanno consentito alla manifattura di reggere distogliendo l'attenzione al problema.
Di fatto però le economie occidentali , Italia in particolare, depurate dall'effetto immobiliare erano già in stagnazione/recessione dai primi anni 2000.
E' da tenere presente che larghissima parte delle costruzioni sono state finanziate (soprattutto dai privati) con mutui decennali/trentennali quindi si è spesa rilevante parte dei redditi futuri. Nonostante questa forte pressione dal lato della domanda, che in condizioni normali del circuito reddito spesa avrebbe portato a un uovo boom economico, non si sono registrati apprezzabili incrementi del PIL.
L'evoluzione del fenomeno ci dice che la delocalizzazione progredisce, gli investimenti nella vecchia Europa calano e soprattutto che si stanno delocalizzando i servizi (dalle lavanderie agli studi di ingegneria, ai back office delle banche ecc.). Inoltre stiamo assistendo a un nuovo fenomeno che è la nascita di nuove aziende manifatturiere in Europa dell'est nei settori dove l'acquisizione della tecnologia è relativamente semplice.
Il canale internet e l'alfabetizzazione tecnica delle popolazioni sono fattori nuovi quanto favorevoli.
Il canale internet consente di vedere tutto quello che succede in occidente, consente di prendere cataloghi, libretti di istruzione e tutto quanto serve per studiare i prodotti, inoltre, grazie a internet si è diffusa rapidamente la lingua inglese.
In sostanza, in Bulgaria, Turchia, Macedonia Serbia, ecc. si trovano giovani ingegneri che non sono in grado di creare da zero dei prodotti, ma che sono sufficientemente preparati per comprendere e copiare/replicare le tecnologie note in occidente. La conoscenza dell'inglese aiuta in questo senso. Con un costo di 500 euro al mese per loro e 300 euro al mese per l'operaio è facile prevedere uno sviluppo manifatturiero di tali aree ... Non a caso la Fiat ha investito in Serbia, anche se in questo caso ha giocato anche un generoso incentivo fiscale.
Altro aspetto da considerare molto attentamente è la qualità, intesa come tipologia, del nostro export.
Nei primi anni 2000 si esportavano prodotti consumer, oggi quel genere di prodotti non si esporta più e siamo diventati esportatori di tecnologia di processo produttivo. Una volta che il gap tecnologico tra occidente e oriente sarà ulteriormente ridotto, in assenza di una riduzione del gap di costo del fattore lavoro, il saldo commerciale per l'Europa peggiorerà di nuovo spingendo l'euro zona in una recessione perenne. E' quanto sta accadendo.
Il fattore cambio potrà solo in parte svolgere una funzione di riequilibrio.
Da notare che il saldo commerciale europeo con il resto del mondo è leggermente positivo oggi solo per il grosso contributo fornito dalla Germania.
Le imprese tedesche alle quali questo scenario è ben noto hanno reagito da tempo acquisendo aziende nel sud est asiatico, delocalizzando li parte della produzione, scegliendo fornitori efficienti dai quali acquistare prodotti da vendere con il proprio marchio il più delle volte spacciandoli per costruiti in Germania.
Ancora una volta il sistema tedesco, agevolato dalla dimensione rilevante delle proprie aziende anticipa i concorrenti e acquista posizioni dominanti o comunque di vantaggio sui mercati mondiali. Ecco perchè diventa vitale per i paesi europei reagire al trend in atto cercando di ridurre o quanto meno limitare le quote di mercato delle imprese tedesche.

L'uscita dall'euro sicuramente restituirebbe competitività al sistema Italia ma questa sola opzione non sarebbe sufficiente a garantire un reale riequilibrio. Ci sarebbe peraltro molto da discutere sul fatto che in caso di ritorno alla lira questa ne subirebbe una pesante svalutazione. Quasi tutti gli economisti che danno stupidamente per scontato questo effetto in realtà non considerano che il cambio sarebbe lira/euro e non lira/marco e con l'euro, oltre alla forza dell'economia tedesca si comprerebbero anche la Grecia, il Portogallo , la Spagna ecc.. Quindi è pressochè certo che il nuovo euro (senza l'Italia) non avrebbe la forza del vecchio marco ammesso che il cambio rifletta le differenze dei fondamentali nelle varie economie. Solo nell'ipotesi che l'Italia decida di proseguire a fare deficit e contestualmente decida di monetizzare il debito espandendo il bilancio della banca centrale e tenendo i tassi a zero, si avrebbe un indebolimento della moneta al pari di quanto accaduto con il dollaro e ancora di più, di recente con lo yen. Peraltro da queste due esperienze si può prudentemente ipotizzare che non si avrebbero segnali inflattivi preoccupanti nemmeno con svalutazioni della moneta molto forti come accaduto allo yen negli ultimi 18 mesi. Anche sull'autonomia finanziaria della nuova lira si è scritto molto, a mio parere in modo improprio. Ad esempio le tesi di Bini Smaghi a negazione della reale autonomia della nuova lira a causa delle interazioni dei mercati degli anni passati e del parallelismo fatto con le recenti crisi delle zone periferiche emergenti dell'estate 2013 è del tutto inconferente se esaminata in una logica di reale autonomia di politica finanziaria incentrata sulla monetizzazione del debito operata da una banca centrale realmente indipendente e funzionale ad una politica economica delineata in accordo con l'esecutivo. A mio parere Bini Smaghi ragiona pensando alla "vecchia normalità" fatta di timori inflattivi conseguenti a politiche molto espansive, mentre la "nuova normalità" nella realtà consente una espansione della massa monetaria senza effetti sull'inflazione e sui tassi.  Del resto lo spauracchio dei debiti pubblici scientemente alimentato dalla Germania nella sua enorme influenza politica, già dagli accordi di Maastricht appare incomprensibile se si raffrontano i debiti pubblici delle maggiori economie del mondo. Il caso Giapponese è emblematico, con un debito ben oltre il doppio del PIL, nessuna crisi finanziaria di fiducia o credibilità ha investito il paese negli ultimi 20 anni. E' pur vero che il debito è largamente finanziato dall'interno, ma l'equilibrio è chiaramente raggiunto e mantenuto da una banca centrale che ha finanziato l'eccedenza delle emissioni governative fino a ieri in un contesto di tassi a zero. Da oltre un anno addirittura la banca centrale ha comprato titoli sul mercato immettendo nel sistema una liquidità enorme. L'effetto sull'inflazione è stato poco rilevante. La stessa cosa è avvenuta negli USA, che a differenza del Giappone hanno un debito che non è finanziato dall'interno ma che dispongono di una banca centrale altrettanto funzionale.

In definitiva dietro questa rigità della Germania a richiedere politiche di austerità si cela ben altro. Escludendo ipotesi di grossolana ignoranza finanziaria non rimane altro che esaminare quali sono gli effetti di questa politica di austerità imposta ai governi "deboli".

Il primo evidente è la desertificazione del tessuto produttivo locale dei paesi periferici, e questa è perfettamente funzionale al disegno politico mercantile egemonico tedesco. I paesi periferici europei come la Grecia, la Spagna, il Portogallo e in parte anche l'Italia e Francia pagheranno il conto più salato perchè non hanno un costo del lavoro sufficientemente basso da stimolare gli insediamenti produttivi a basso contenuto tecnologico che vengono invece dirottati in Romania, Serbia ecc. e dall'altro lato hanno un costo del lavoro comunque più basso di quello tedesco costituendo pur sempre un'insidia per la manifattura tedesca. Questo perchè nelle attività non protette da brevetti l'acquisizione del know how è relativamente semplice nei nostri tempi.

Il secondo è il mantenimento di un elevato merito creditizio interno funzionale a finanziare il debito statale e il debito delle proprie imprese a tassi molto bassi. Ciò sarebbe compromesso da politiche di solidarietà o di mutualizzazione del debito verso i paesi periferici dell'area euro. L'austerità imposta ai paesi "deboli" è finalizzata a prevenire crisi interne all'euro zona con conseguenti ipotetiche necessità di ulteriori salvataggi come accaduto nel caso greco. Inoltre una struttura di tassi di interesse sensibilmente più bassa che questa situazione consente, è funzionale anche a finanziare il consumo di beni tedeschi. Lo rilevava lo stesso Marchionne, se la finanziaria del gruppo Audi accede al credito nelle banche tedesche a tassi inferiori rispetto a quanto può fare la Fiat in Italia o la Peugeot in Francia e' evidente che il finanziamento al consumo dei beni durevoli tedeschi risulta sensibilmente avvantaggiato. 

Al di là degli aspetti macro che questo blog vuole solo incidentalmente sfiorare, rimane un problema fondamentale al quale la politica italiana dovrà prima o poi dare una risposta (anche una non risposta sarà una risposta) : a tutte quelle attività ad elevato fattore lavoro che si dovranno scontrare con la concorrenza dell'est Europa o della Cina, che ad oggi hanno solo due alternative: delocalizzare o chiudere , cosa risponderà la politica italiana ? La Germania dei mini job della riforma Hartz, ha permesso la creazione di uno stato nello stato con 7 milioni di lavoratori retribuiti ai livelli della Romania o poco di più. Questo ha consentito di limitare la delocalizzazione delle imprese tedesche e di permettere a una rilevante quantità di imprese medio piccole alle quali è preclusa la delocalizzazione per ragioni organizzative e di dimensione, di sopravvivere al contesto economico più competitivo. Peter Hartz ha capito, nel 2003, con grande lungimiranza che l'intergrazione interna, seppur partendo con un salario minimo, poteva da un lato proteggere/salvare il tessuto manifatturiero interno e dall'altro impedire l'esportazione gratuita di tecnologia connessa con la delocalizzazione. Rigidità burocratiche varie, salario minimo e articolo 18, al di la degli aspetti sociali connessi, portano alla desertificazione del tessuto produttivo fintanto che l'alternativa per il piccolo imprenditore, non più in grado di competere in un contesto di domanda calante e fiscalità crescente, rimane morire o fuggire (delocalizzare). http://www.forexinfo.it/Welfare-riforma-tedesca-Hartz-cosa.

Non mancherà qualche politico che, con l'intento di strumentalizzare il fenomeno, dirà che la Germania ha ricreato i lager deportando 7 milioni di extracomunitari dai loro paesi di origine, mettendoli a lavorare nelle proprie aziende a salari da fame.. Rievocare Himmler sarebbe una strumentalizzazione impietosa quanto scorretta sotto il profilo storico. Quei lavoratori nei loro paesi di origine morivano di fame comunque, in Germania sopravvivono seppur affamati. Pertanto la riforma del lavoro tedesca va vista come una illuminata opera di riorganizzazione del mercato del lavoro che limita gli abusi, limita l'economia sommersa e consente, con un "salario di ingresso" non solo incentivante ma addirittura vitale per le imprese con basso livello di valore aggiunto tecnologico, anche una reale opportunità per il lavoratore. Ciò detto, è evidente che una comunità Europea che consente in alcune regioni di fare ciò che non si può fare in altre, genera squilibri. Se un'impresa in Baviera può assumere un lavoratore ukraino a 500 euro al mese mentre in Veneto questo non è possibile non ci si può stupire se in Veneto la mortalità delle aziende è molto più forte che in Baviera. Così come non ci si può stupire di avere evasione fiscale se quello che il mercato richiede viene confinato nell'illegalità da governanti incapaci o demagogicamente conservatori. Questo vale per i lavori a basso contenuto di professionalità e, se vogliamo estremizzare, per tutti i mercati non riconosciuti e disciplinati dal legislatore. Esempio emblematico la prostituzione. Saltando a piedi pari la questione morale sull'argomento, è da rilevare che in Germania è disciplinata e produce introiti fiscali. In Italia ciò non avviene e produce solo i costi sociali connessi con la beffa di avere la delocalizzazione anche dei servizi sessuali a favore di Austria , Svizzera, Romania, Brasile  ecc., e nessun introito per lo Stato.

Una riforma Hartz in Italia, con una riduzione della burocrazia, un'abolizione del salario minimo e dell'art.18, unitamente a un protezionismo interno simmetrico a quello tedesco (e anche americano) porterebbe con se una ripresa rapida del ciclo economico, un recupero di competitività della manifattura, un ritorno dei flussi migratori residenti, una limitazone del processo di delocalizzazione e infine un recupero del mercato immobiliare. Con un PIL facilmente in crescita del 2 %, innumerevoli sarebbero gli effetti collaterali positivi come ad esempio il miglioramento dei conti pubblici connesso con un aumento del gettito fiscale a parità di pressione, una diminuzione delle sofferenze per le banche ecc..

In assenza di tutto questo la strage giornaliera di aziende continuerà.

Ciò detto non bisogna perdere di vista il trend in visione storica. Se da un lato una riforma modello Hartz in Italia, unitamente a una presa di coscienza dei consumatori come indicato nel capitolo "Le Contromisure" potrebbe nel breve riequilibrare il differenziale tra Germania e paesi periferici e persuadere i poteri forti tedeschi ad abbandonare politiche di cieca austerità e restrizione finanziaria, dall'altro lato è da tenere ben presente che gli squilibri mondiali in ambito produttivo non sono sanabili nemmeno nel medio termine.

Pertanto l'evoluzione della storia europea è chiaramente delineata e porta a un progressivo impoverimento del suo tessuto. Il modello "hartz" costituisce una terza via per spostare in avanti nel tempo la scelta di "chiudere o delocalizzare" che hanno oggi come alternativa diverse aziende.

A ciò si aggiunge il fattore sociologico tipico di chi è vissuto per molto tempo nell'abbondanza. La scarsa propensione al sacrificio dei giovani lavoratori, la pretesa della popolazione di poter continuare e vivere in modo agiato a cui si accompagna una classe politica impreparata e smarrita nella litigiosità giornaliera sono peculiarità del momento storico già registrate nel passato. Sono grandi le analogie con la caduta dell'Impero Romano e con la caduta della Repubblica di Venezia. L'enorme crescita dei Neet (not in education, Employment, or Training) con la crisi è un fatto socialmente irreversibile quanto sintomatico per le economie mature che non consente nessuna previsione di recupero di produttività e di competitività, nemmeno quando la deflazione del costo del lavoro in occidente e l'inflazione nei paesi emergenti avrà azzerato il gap.

In termini globali si avrà un sostanziale travaso continuo di ricchezza dai paesi sviluppati verso i paesi emergenti e prima di arrivare all'azzeramento del gap di costo del lavoro i dolori per le popolazioni dell'occidente saranno molto forti. 

 

 

 

 

 

 

 


 

commenta

Commenti

Non ci sono commenti
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit. Nam vel lacinia augue, non suscipit nisi. Nulla orci dolor, feugiat nec tincidunt ut, malesuada non nulla. Vestibulum elementum dapibus ipsum. Ut porttitor feugiat enim id aliquet. Donec porttitor lacus et sagittis ultricies. Nulla facilisi. Aliquam eget blandit tellus. Vivamus hendrerit suscipit elit. Fusce consectetur odio vel augue rutrum, id luctus velit rutrum. Nam eu turpis enim. Cras ornare id libero sed iaculis. Etiam faucibus cursus leo vel facilisis. In hac habitasse platea dictumst.